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Il trampoliere dell’Adriatico
Come Atlantide, la città sommersa, si staglia imponente sui fondali dell’oceano, Venezia si erge maestosa sul filo delle acque del mar Adriatico, come per magia, agli occhi di chi
sbarca sui suoi confini. In realtà l’esistenza degli edifici tanto ammirati dai turisti, dei numerosi vicoli e dei canali che rendono unica Venezia permettendo ai gondolieri di far serpeggiare i visitatori nel cuore stesso dell’intrico urbano è dovuta solamente alla geniale struttura subacquea che sorregge l’intera città: centinaia e centinaia di possenti pali uniti gli uni
con gli altri attraverso strati di sedimenti formano la punta nascosta dell’iceberg, costituendo uno spettacolo tanto affascinante quanto quello esposto alla luce del sole.
La Serenissima, infatti, fu eretta utilizzando la stessa tecnica riservata alla costruzione di edifici nelle paludi, un sistema chiamato a fondazione indiretta, per cui la zona veniva dapprima solidificata piantando, appunto, dei corti pali appuntiti (in larice o rovere) che arrivavano a raggiungere un strato particolarmente duro e compatto d’argilla detto caranto, situato a una decina di metri sotto lo strato superficiale della laguna.
Questi pali venivano infissi seguendo un andamento multiplo lungo la striscia di terreno sopra la quale si ergevano i muri perimetrali e di spina, sui cui poggiava gran parte del peso dell’edificio; dopodiché, sopra di essi venivano fissati due strati di spesse tavole di legno tra loro incrociate per consentire maggiore stabilità. Infine, su questa struttura venivano poi erette le vere e proprie fondamenta degli edifici costituite da un muro a plinto (con le pareti leggermente inclinate) e da enormi blocchi di pietra d’Istria, fino a superare il livello dell’acqua. In tal modo, solo la parte costituita da questo tipo impermeabile di pietra rimane a contatto con l’acqua salata, mentre la struttura in legno rimane ricoperta dal fango e con il passare del tempo subisce un processo di calcificazione che rende l’intera struttura ancora più stabile.
Ecco quindi perché possiamo definire i pali come la struttura ossea di Venezia, una magnifica sovrana che non si limita a farsi sostenere da queste ossa di legno, ma le usa anche come soldati, per proteggere il suo fluido regno.
Essi infatti fungono anche da segnaletica per le barche che si aggirano nei dintorni della città, in questo caso vengono chiamati briccole.
In ambito lagunare una briccola è generalmente formata da più pali uniti tra di loro all’estremità che fuoriesce dall’acqua per formare una sorta di triangolo; il suo scopo è quello di segnalare alle imbarcazioni il limite della parte più profonda della laguna e delimitare le “strade” per evitare che si arenino o che si verifichino incidenti. Si differenziano da queste, le paline, costituite invece da un unico palo che funge da punto di attracco per i mezzi di navigazione.
Chi va a visitare Venezia non può quindi fare a meno di vedere pali ovunque poggi il suo sguardo: pali, pali, pali, e milioni di pali.
Purtroppo però questi soldatini di legno non potranno nulla contro l’innalzamento del livello delle acque che minaccia sfacciatamente Venezia di farle raggiungere la sua mitologica rivale.
Frutto del riscaldamento globale a sua volta causato dall’aumentare della concentrazione di gas serra nell’atmosfera, l’aumento del livello dei mari è un fenomeno che minaccia non solo Venezia, ma le terre dell’intero pianeta:
le radiazioni che arrivano a interagire con le acque infatti fanno aumentare la temperatura interna del sistema e l’acqua, scaldandosi, aumenta di volume e di conseguenza occupa più spazio, espandendosi e rischiando così di arrivare a sommergere progressivamente una buona parte delle terre.
Uno scontro epocale che vede da un lato l’incredibile forza della natura e dall’altro un’opera d’arte che domina le acque del golfo veneto. Mentre sopra questi due eserciti pronti a scontrarsi, come un burattinaio, l’uomo osserva il progredire degli eventi e detiene il potere di scegliere se intervenire o lasciare andare tutto alla deriva.
Giulia Faccini, Ludovica Riccio, Sara Filippini 3 DLS
Venezia: l’arte del vetro
La produzione vetraria veneziana affonda le sue radici nella storia più antica: un’arte che tocca il suo apice tra il XV e il XIX secolo per poi giungere fino ai giorni nostri. Essa si rifà direttamente a quella già florida di origine romana e bizantina; a dimostrarlo sono le fornaci con frammenti di vetro e tessere di mosaico rinvenute a Torcello in un contesto archeologico risalente al 600-650 d.C. Grazie alla Bolla d’Oro del 1082 dell’ Imperatore Alessio I di Bisanzio sui diritti commerciali di Venezia in Oriente, inizia l’espansione commerciale della Serenissima che la vedrà protagonista negli scambi tra l’Europa continentale, il Mediterraneo e il Medio Oriente. Fondachi e ambascerie permanenti saranno presenti nel Reame di Granada, nel Marocco degli Almoravidi, nell’Egitto fatimide e mamelucco e negli Emirati selgiuchidi del sud-est dell’Anatolia. Agli inizi del XV secolo, in seguito alla caduta della Siria e alla presa di Costantinopoli da parte dei turchi ottomani nel 1453, e soprattutto grazie alle nuove conquiste della marineria spagnola e portoghese e alla scoperta del continente americano, le rotte commerciali cambiano radicalmente. Il Golfo di Guinea diventa il nuovo polo commerciale dove le navi lusitane prima e poi spagnole, olandesi e inglesi sbarcano le loro merci. Tra queste, le perle di vetro veneziane assunsero una vera e propria funzione di “moneta”: magica, pratica e incorruttibile.
È a questo punto che Venezia diventa la capitale mondiale della produzione e della diffusione di questi preziosi, un monopolio che conserverà per oltre tre secoli.
Eredi dell’arte vetraria alessandrina e romana, gli artigiani della Serenissima non ebbero alcuna difficoltà ad offrire perle di vetro che riproponevano i motivi taumaturgici contenuti in quelle mediorientali che, da secoli, venivano trasportate e commercializzate dalle carovane sahariane provenienti da Egitto, Siria, Persia e, attraverso le vie della seta e dell’ ambra, dall’Estremo Oriente. L’uso di queste decorazioni magiche e misteriose a protezione delle persone affonda le sue radici in una tradizione molto antica, che risale al II millennio a.C. in Mesopotamia per poi arrivare fino ai giorni nostri nonostante la rigida posizione nei confronti degli amuleti da parte delle religioni monoteiste. In Africa, principalmente, l’uso di tali oggetti è talmente radicato da aver dato vita ad un fiorente mercato dove essi sono stati scambiati per secoli con avorio, oro, olio di palma, legname e persino schiavi.
Attualmente questo traffico è ancora piuttosto vivace e poichè i prodotti veneziani risultano troppo costosi, altri Paesi come la Cina, l’India e l’Indonesia hanno raccolto il testimone e stanno riproponendo a costi molto vantaggiosi archetipi veneziani: oggetti che si rifanno a originali islamici, debitori a loro volta di amuleti alessandrini, fenici e mesopotamici.
Inizialmente le vetrerie sorgevano nel nucleo centrale della città; ma, a partire dal 1291, per prevenire i rischi di incendi nel centro di Venezia, le fornaci per la lavorazione del vetro vennero trasferite a Murano, dove la tradizione persiste ancora oggi. Con l’editto dogale promulgato dal doge Tiepolo, l’isola di Murano fu dichiarata vera e propria area industriale e divenne ben presto anche la capitale della produzione vetraria mondiale. A Murano quest’attività si concentrò lungo il Rio dei Vetrai dove tutt’ora sorgono le fornaci più antiche. Ogni anno milioni di turisti visitano l’isola del vetro, affascinati dallo spettacolo di un maestro vetraio che trasforma sotto i loro occhi sabbia, silicio e ossidi di metallo in forme di vetro dai riflessi cangianti e quasi magici.
Dietro questa eterea bellezza, però, c’è il duro lavoro dell’artista che modella il vetro in forme e dimensioni diverse utilizzando varie tecniche, ottenendo colori, incisioni, satinature e quant’altro possa essere realizzato. Sulle tecniche utilizzate è mantenuto il più assoluto segreto, infatti la Serenissima tutelava i propri artigiani vietando l’importazione di vetri stranieri e imponeva agli addetti delle fornaci di non rendere note le procedure di lavorazione e produzione. I maestri vetrai di Murano erano insigniti di un titolo nobiliare e iscritti nel Libro d’Oro delle famiglie patrizie veneziane. Molte opere manifatturiere sono esposte nel Museo del Vetro di Murano, ospitato a Palazzo Giustinian, che illustra egregiamente l’alta specializzazione dell’arte vetraria nel corso del tempo.
Queste tecniche sono tramandate particolare per particolare in modo tale che il vetraio sia un vero e proprio maestro del vetro: è questo il caso di Sandro che, ospitandoci nella sua fornace, ha trasformato davanti ai nostri occhi l’informe massa incandescente in un cavallo rampante impiegando solo un paio minuti.
L’immagine delle prestigiose vetrerie e dei laboratori artigianali ci restituisce il significato più autentico dell’arte vetraria veneziana: arte antica, con i suoi segreti gelosamente custoditi, unica nella sua perfezione, che ha saputo attraversare i secoli grazie al tramandarsi, di padre in figlio, di metodi e processi.
Marco Di Silvio, Leonardo Larocca, Dario Palmitelli 3DLS
L’artigianato delle maschere
Venezia è conosciuta da tutti come “città sull’acqua”, per la sua totale assenza di mezzi di trasporto terrestri e per la sua storia di capitale marittima; ma dietro a questa “maschera” se ne nascondono altre, di cartapesta e decorate con gemme, tessuti e nastri.
Ne abbiamo notizie dal 1268, anno in cui cominciò la parte documentata della trasgressiva storia delle maschere: fu, infatti, l’anno della prima legge scritta che proibiva ai “mattaccini” mascherati di lanciare uova alle dame.
Negli anni il loro utilizzo ebbe una crescita verticale tanto che gli artigiani, detti “mascherieri”, entrarono in possesso di uno statuto dal 1436 e aprirono le loro botteghe di maschere. Questa produzione manifatturiera può apparire modesta se accostata alla magnifica fabbrica di vetro di Murano, ma a queste dodici botteghe vanno aggiunte le numerose produzioni in nero.
Ci sono due tipi di maschere veneziane: la bauta e la moretta.
La bauta veniva utilizzata da uomini e donne in svariate occasioni, come il Carnevale, Santo Stefano e il Martedì Grasso. Un tabarro nero, bianco o turchino copriva le spalle all’indossatore, mentre una maschera bianca, detta “larva”, cioè fantasma, copriva il volto; ma era fatta in modo da permettere di mangiare e bere mantenendo l’ anonimato. La moretta veniva usata dalle donne. Essa era contornata da veli, velette e cappellini a larghe falde. Veniva indossata grazie a un perno tenuto in bocca, quindi rendeva muta la dama e, di conseguenza, era gradita agli uomini.
All’inizio vigeva la legge “a Carnevale ogni scherzo vale”, quindi i cittadini mascherati potevano agire liberamente, anche contro le leggi o la morale. Alcune volte, però, si oltrepassava il limite e molti furono colti con armi nascoste nel tabarro o, come nei casi delle prostitute, le maschere venivano indossate irregolarmente, nei giorni non festivi. Vennero introdotte multe e sanzioni, anche corporali per i trasgressori.
Si proseguì in questo modo, tra sregolatezza e nuove imposizioni, fino all’epoca della dominazione austriaca, quando le maschere furono ammesse solo in feste private e non più al Carnevale. Un divieto che non poté convivere con l’essenza della città, che, al tempo, viveva ogni giorno con leggerezza, come se fosse un Carnevale.
Ora Venezia avrebbe bisogno di reintrodurre quella gioiosa serenità, perché aiuterebbe gli abitanti a ritornare ad amare la propria città, sia con tanti, che con pochi turisti.
Claudio Clerici, Francesco Trespidi, Donald Koueteu 3 DLS
SPRITZ MAFIA E MANDOLINO
Qando si parla di mafia, è di solito l’immagine del buon vecchio Marlon Brando a venirci in mente, con i suoi tipici baffetti, il fiore nel taschino e un gatto sulle ginocchia: il collegamento stereotipato che il nostro cervello fa è mafia uguale Sud Italia, quindi grandi clan dall’accento siculo-partenopeo che ostentano il proprio potere esibendo pacchiani beni di lusso.
E se questo ambiente dal sapore di friarielli e panelle venisse accompagnato da un retrogusto di spritz?
Ebbene sì: persino Venezia, così cristallina, idilliaca, la classica “città cartolina”, non è racchiusa in una sfera di cristallo.
Un segnale lampante di tutto ciò l’abbiamo visto persino durante una semplice gita scolastica: appeso a un balcone affacciato sul Canal Grande, poco prima del Ponte di Rialto, uno striscione citava la scritta “STOP MAFIA VENEZIA E’ SACRA”.
Dopo qualche ricerca, abbiamo scoperto che lo slogan si trova lì dal 2014, anno dello scandalo Orsoni: dopo l’accusa per corruzione nell’ambito MOSE e nella campagna elettorale del 2010, insieme al sospetto di collusione mafiosa e l’arresto ai domiciliari, il sindaco Giorgio Orsoni era stato scagionato e aveva ripreso possesso del suo studio in Municipio, per poi rassegnare le dimissioni poco dopo.
Del resto, il Veneto non è certo nuovo a realtà di criminalità organizzata: gettando uno sguardo sul passato, piú precisamente al ventennio successivo al secondo dopoguerra, il panorama malavitoso delle regioni dell’Italia nord-orientale era composto da bande coinvolte perlopiù in azioni di microcriminalità.
A Venezia questo ambiente era sviluppato al pari delle altre grandi città italiane e si basava sul contrabbando in particolare di sigarette; dalla metà degli anni ’70 il ben più lucroso traffico di droga cominciò a diventare l’attività principale.
L’arrivo di alcuni esponenti della mafia siciliana fu la base per la nascita di un gruppo paramafioso che potesse fare da ponte tra il Nord e il Sud.
Verso la fine degli anni settanta si formò, tra le province di Padova e Venezia, una piccola banda dedita principalmente a furti di generi alimentari, di bestiame e di pellame capitanata da Felice Maniero, detto Faccia d’angelo. Inoltre, Maniero strinse alleanze con altre bande venete, come quella dei fratelli Maritan a San Donà di Piave o dei fratelli Rizzi a Venezia. Le attività delinquenziali del gruppo spaziavano dai sequestri di persona alle rapine, dal traffico di sostanze stupefacenti a quello d’armi, dal controllo di bische clandestine e dei cambisti del Casinò di Venezia al riciclaggio di denaro, fino ad arrivare agli omicidi.
Sviluppatasi negli stessi anni e negli stessi contesti criminali da cui nacquero a Roma la banda della Magliana e a Milano la banda della Comasina, si distinse dalle altre mafie italiane per il carattere rurale mantenuto nel corso degli anni: è considerata da taluni una vera e propria mafia e per questo è anche soprannominata la quinta Mafia.
Ma la domanda che sorge spontanea è: perché, dopo cinque anni, quello striscione è ancora lì? Il capitolo della mafia veneziana può dire essersi chiuso alla fine degli anni ‘90, nonostante molti arresti siano stati effettuati nel corso del Nuovo Millennio. Quindi, forse, si è deciso di lasciarlo come simbolo, il monito di una triste realtà che, probabilmente, corrode ancora le fragili fondamenta della ormai ben poco Serenissima.
Roberta Basile, Davide Invernizzi , Pietro Reali 3 DLS
Corte seconda del “Milion”: quattro passi nell’antico quartiere dei Polo
Marco Polo
Marco Polo nacque a Venezia nel 1254; fu un famoso viaggiatore, scrittore, ambasciatore e mercante italiano. La sua famiglia fu un importante membro del patriziato veneziano. Insieme al padre e allo zio viaggiò a lungo in Asia percorrendo la Via della seta e attraversando tutto il continente asiatico fino a raggiungere la Cina. Raccolte sotto il titolo di Divisament dou Monde, le sue memorie di viaggio divennero note, in seguito, come “Il Milione” e ispirarono i viaggi di Cristoforo Colombo. Egli morì nella sua casa veneziana nel 1324.
La corte
A poca distanza dal Ponte di Rialto abbiamo potuto visitare la Corte seconda del Milion, uno slargo tra le case intorno alla “vera da pozzo”, accompagnati da una guida turistica. L’unico accesso alla corte è il basso sotoportego, così come è solito nelle corti veneziane. Le case cinquecentesche che la circondano sorgono sulle antiche fondamenta di quelle della famiglia Polo, le quali erano solite essere affittate ai mercanti. La Vera da Pozzo è disposta sull’antico pozzo veneziano, eseguito con l’argilla che isolava da infiltrazioni di acqua salmastra e sabbia. Le vere da pozzo avevano funzione di cisterne, così da favorire la raccolta dell’acqua piovana e garantire alla città una riserva d’acqua potabile.
La guida ci ha raccontato che il soprannome di Marco Polo e del sestiere appartenuto alla sua ricchissima famiglia, deriverebbero però non dal libro, ma dal fatto che quando finalmente riuscì a tornare a Venezia, nel 1295, davanti ai parenti increduli, tagliò i suoi vecchi vestiti e ne trasse molti diamanti e pietre preziose. Egli, inoltre, raccontava continuamente ai concittadini le meraviglie che aveva veduto e l’immensa ricchezza del Gran Can, pari a dieci forse quindici milioni in oro. Grazie a questo immenso patrimonio, i veneziani gli posero per cognome messer Marco Milioni.
Paolo Milasi, Filippo Palmeroni , Fabio Piacentini, Matteo Sangermano 3DLS
Il ponte di Calatrava
Venezia è sicuramente una tra le più belle e conosciute città al mondo grazie alla sua unicità dovuta al fatto che è costruita sull’acqua. Sono circa 120 le isolette, sorrette da pali in legno o cemento armato, che costituiscono la base su cui poggia la città; tutte collegate mediante diversi ponti i quali, per un motivo o per l’altro, sono spesso oggetto di critiche da parte di abitanti e turisti. Tra questi il più discusso negli ultimi anni è il ponte di Calatrava, situato nei pressi della stazione di Santa Lucia, il più recente dei quattro ponti che collegano le due sponde del Canal Grande.
Il quarto ponte sul Canal Grande era ritenuto da tempo necessario come collegamento fra piazzale Roma – il capolinea di auto e mezzi pubblici – e la stazione Santa Lucia. La mancanza di un ponte in quella zona della città era evidente da anni, poiché non esisteva un percorso comodo in grado di sostenere l’arrivo giornaliero in città di decina di migliaia di persone, fra turisti, lavoratori e pendolari.
Il ponte fu progettato alla fine degli anni Novanta dal famoso architetto spagnolo Santiago Calatrava, autore di importanti opere in tutto il mondo. Nel 1997 Calatrava donò il suo progetto alla città di Venezia; ma i problemi del ponte iniziarono già in fase di studio preliminare, quando diversi esperti misero in guardia da possibili problemi di staticità. L’approvazione definitiva da parte del comune di Venezia arrivò nel 2001; ma nel 2003, quando iniziò la costruzione, i problemi si ripresentarono. La ditta, incaricata dei lavori, effettuò una verifica del progetto e notò la presenza di alcuni difetti per i quali richiese assistenza allo studio di Calatrava, dando inizio così alla dilatazione dei tempi di costruzione.
Il ponte fu inaugurato l’11 settembre 2008, dopo sei anni di lavori, a seguito di vari rinvii, dubbi sulla stabilità e polemiche sulla lievitazione dei costi. Esso è chiamato anche Ponte della Costituzione poiché inaugurato nel sessantesimo anniversario della promulgazione della Costituzione italiana.
Il piano di lavoro mostra un ponte dalla forma arcuata con una campata di 81 metri, larghezza di 6 alla base e 9 al centro per un’altezza di 10 metri al culmine; la struttura è in acciaio e i pavimenti, originariamente in vetro e pietra d’Istria, sono stati in parte sostituiti con lastre in trachite per trovare una soluzione definitiva alle problematiche legate al rischio di inciampo e scivolamento sulle parti vetrate, specie nelle giornate particolarmente umide e piovose.
L’intero progetto, a fine cantiere, è costato circa 11 milioni di euro a cui vanno inoltre aggiunti 1.8 milioni di euro per la realizzazione dell’ovovia per il trasporto disabili che, come spesso purtroppo accade in Italia, non è mai entrata in servizio. Queste spese folli hanno poi spinto la Corte dei Conti ad aprire un’inchiesta conclusasi nel 2015 dato che il giudice “non ha ravvisato colpe gravi”. Sempre la Corte dei Conti ha archiviato anche il processo per presunto danno erariale relativo all’installazione dell’ovovia, dando così il “nullaosta tecnico” per la sua rimozione.
Nonostante l’archiviazione dell’inchiesta ancora oggi il ponte rimane un esempio eclatante di inefficienza e di spreco del denaro pubblico. Come l’ovovia, molte altre opere in Italia, dopo aver ricevuto ingenti finanziamenti, rimangono inutilizzate o addirittura incompiute.
Spesso, inoltre, le problematiche strutturali legate alle infrastrutture emergono alla luce del sole solamente in seguito a fatti gravi: l’esempio più recente è quello del Ponte Morandi il cui crollo ha causato la morte di 43 persone. Insomma, in Italia è sempre la solita solfa: troppe pratiche burocratiche, tangenti, corruzione e a rimetterci sono sempre gli italiani, quelli onesti.
Riccardo Basso, Andrea Bigioggero, Nicolò Di Paola 3 DLS